Da
una persona che come me odia la muffa, in ogni sua forma, tutto ci si
aspetterebbe tranne che fosse incredibilmente appassionata di
quell’artista che nel secondo dopoguerra ha contribuito a fare
della muffa un’opera d’arte. Ovviamente non sto parlando di vera
e propria muffa, sto parlando di composizioni pittoriche realizzate
da Alberto Burri.
Alberto
Burri nasce nel 1915 a Città di Castello, ufficiale medico nella
seconda guerra mondiale, viene fatto prigioniero dagli Inglesi e
deportato in Texas dove inizia la sua attività artistica. Tornato
in Italia, abbandona definitivamente la medicina per dedicarsi
esclusivamente alla pittura.
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Sacco 5P, (1953) Fondazione Palazzo Albizzini |
Quelle
immagini mi erano del tutto nuove, e benché passassero distratte tra
i banchi, la mia attenzione cresceva in modo esponenziale. Percepivo
la sua ricerca della realtà, la sua esaltazione della materia.
Inquadrare
la visone artistica di Burri non è cosi semplice: informale,
neoplastico, barbarico, sperimentale, concettuale, sono tutte
associazioni, antitetiche tra l’altro, attribuite all’artista
umbro.
Sta
di fatto che è nella corrente Informale che trova più
rappresentanza, dove i termini macchia, segno, gesto, materia ne
descrivono i tratti culturali.
La
carriera artistica di Burri comincia in un ambito astratto, sono gli
anni della «muffe», dei «catrami» e dei «gobbi». Permane
ancora un carattere pittorico;
colori ad olio, smalti sintetici, catrame e pietra pomice sono i
mezzi utilizzati per raccontare la storia della materia, delle sue
lacerazioni.
Alla
fine degli anni ‘50 I sacchi vengono sostituiti dalle stoffe e i
rifiuti su sfondo rosso, con tutta la loro carica pittorica,
diventano i protagonisti del processo artistico.
La
ricerca dell’ ‘artista deve essere vista come un processo di
rivincita della materia spogliata di significati simbolici la cui
sublimazione porta alla rivelazione della sua segreta bellezza.
Ancora
non bene compreso dalla critica, Burri spinge la sua ricerca oltre al
limite del linguaggio.
Gli anni 60 sono
segnati dalle «combustioni» e dai «legni». Il fuoco diventa
tutt’uno con il processo creativo, demarca i colori e le ombre,
sottolineando la potenza energetica del materiale.
Con
straordinaria innovazione Burri continua a cambiare il repertorio dei
materiali passando a quelli industriali: è la fase delle
«plastiche».
Lo
strumento usato è sempre il fuoco, un fuoco purificatore che risana
il caos e riporta il Logos.
La
materia diventa spessa, le piegature sottolineano il movimento
cromatico, il quadro è in aggetto, non c’è più bidimensionalità
ma occupa lo spazio.
“Volevo
mostrare l’energia di una superficie” spiegava Burri per
raccontare l’origine dei «cretti»
negli anni
settanta.
Realizzati
con una
mistura di caolino, vinavil e pigmenti propongono un tema geologico,
la terra come elemento primordiale che viene essiccata e
devitalizzata .
Il
linguaggio di Burri negli ultimi anni si fa sempre più nudo ed
economico. Ne è conferma la fase dei «cellotex»,
la materia e la pittura si uniscono in vasti ritagli di colore puro.
L’arte
di Burri appare sincera, non presuntuosa, come se abbassasse la testa
per raccontare una storia povera, quella del materiale prima di
essere immobilizzato sulla tela, la sua nascita e il suo uso.
Per
chi volesse scoprire questa storia consiglio di visitare i due musei
della Fondazione
di Palazzo Albizzini
dedicati all’artista a Città di Castello.
In
conclusione, l’opera di Burri ha radicalmente cambiato e influenzato il mondo dell’arte contemporanea mettendo in
discussione le sue stesse radici: l’arte che descrive la realtà è
stata sostituita da un' arte che attraverso la vita descrive la vita
stessa.
Scritto da Maddalena
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