martedì 11 giugno 2013

Alberto Burri: “Il mio ultimo quadro è uguale al primo”.

Da una persona che come me odia la muffa, in ogni sua forma, tutto ci si aspetterebbe tranne che fosse incredibilmente appassionata di quell’artista che nel secondo dopoguerra ha contribuito a fare della muffa un’opera d’arte. Ovviamente non sto parlando di vera e propria muffa, sto parlando di composizioni pittoriche realizzate da Alberto Burri.
Alberto Burri nasce nel 1915 a Città di Castello, ufficiale medico nella seconda guerra mondiale, viene fatto prigioniero dagli Inglesi e deportato in Texas dove inizia la sua attività artistica. Tornato in Italia, abbandona definitivamente la medicina per dedicarsi esclusivamente alla pittura.

Sacco 5P, (1953) Fondazione Palazzo Albizzini
La mia passione per quest’artista nasce all’università dove in una lezione sul concetto di materia mi vennero proiettate alcune delle sue opere . Perché è proprio di questo che tratta Burri: la materia e le sue qualità espressive.
Quelle immagini mi erano del tutto nuove, e benché passassero distratte tra i banchi, la mia attenzione cresceva in modo esponenziale. Percepivo la sua ricerca della realtà, la sua esaltazione della materia.

Inquadrare la visone artistica di Burri non è cosi semplice: informale, neoplastico, barbarico, sperimentale, concettuale, sono tutte associazioni, antitetiche tra l’altro, attribuite all’artista umbro.
Sta di fatto che è nella corrente Informale che trova più rappresentanza, dove i termini macchia, segno, gesto, materia ne descrivono i tratti culturali.
La carriera artistica di Burri comincia in un ambito astratto, sono gli anni della «muffe», dei «catrami» e dei «gobbi». Permane ancora un carattere pittorico; colori ad olio, smalti sintetici, catrame e pietra pomice sono i mezzi utilizzati per raccontare la storia della materia, delle sue lacerazioni.
Alla fine degli anni ‘50 I sacchi vengono sostituiti dalle stoffe e i rifiuti su sfondo rosso, con tutta la loro carica pittorica, diventano i protagonisti del processo artistico.
La ricerca dell’ ‘artista deve essere vista come un processo di rivincita della materia spogliata di significati simbolici la cui sublimazione porta alla rivelazione della sua segreta bellezza.
Rosso Plastica (1964), Città di Castello, Fondazione Palazzo Albizzini

Ancora non bene compreso dalla critica, Burri spinge la sua ricerca oltre al limite del linguaggio.
Gli anni 60 sono segnati dalle «combustioni» e dai «legni». Il fuoco diventa tutt’uno con il processo creativo, demarca i colori e le ombre, sottolineando la potenza energetica del materiale.

Con straordinaria innovazione Burri continua a cambiare il repertorio dei materiali passando a quelli industriali: è la fase delle «plastiche».
Lo strumento usato è sempre il fuoco, un fuoco purificatore che risana il caos e riporta il Logos.
La materia diventa spessa, le piegature sottolineano il movimento cromatico, il quadro è in aggetto, non c’è più bidimensionalità ma occupa lo spazio.


Grande Cretto Nero (1977), Parigi, Musée National d'Art Moderne

Volevo mostrare l’energia di una superficie” spiegava Burri per raccontare l’origine dei «cretti» negli anni settanta.
Realizzati con una mistura di caolino, vinavil e pigmenti propongono un tema geologico, la terra come elemento primordiale che viene essiccata e devitalizzata .
Il linguaggio di Burri negli ultimi anni si fa sempre più nudo ed economico. Ne è conferma la fase dei «cellotex», la materia e la pittura si uniscono in vasti ritagli di colore puro.
L’arte di Burri appare sincera, non presuntuosa, come se abbassasse la testa per raccontare una storia povera, quella del materiale prima di essere immobilizzato sulla tela, la sua nascita e il suo uso.
Per chi volesse scoprire questa storia consiglio di visitare i due musei della Fondazione di Palazzo Albizzini dedicati all’artista a Città di Castello.
In conclusione, l’opera di Burri ha radicalmente cambiato e influenzato il mondo dell’arte contemporanea mettendo in discussione le sue stesse radici: l’arte che descrive la realtà è stata sostituita da un' arte che attraverso la vita descrive la vita stessa.


                                                   


Scritto da Maddalena 

martedì 26 febbraio 2013

Il valore immortale della Qualità.




"You Know it's always the next issue that's gonna be the best one." 

(Anna Wintour)


Ogni tanto mi fermo un secondo a riflettere su come sia la moda, su come sia nata e cosa stia diventando oggi, verso cosa si stia proiettando. Ogni giorno c'è qualcosa di nuovo, qualche evento, qualche incontro fra grandi del settore, magari un editorial importante.
Non si tiene davvero il ritmo di quello che succede ai piani alti e nemmeno coloro che ci lavorano e li gestiscono spesso tengono i ritmi della moda dei giorni nostri.
Ciò che deve arrivare è sempre meglio di ciò che c'è stato, allo stesso modo ciò che è di "ieri" è già vecchio e polveroso, accatastato nel dimenticatoio.
In fondo, quando si compra un nuovo paio di scarpe, che odorano ancora di pelle e luccicano intatte nella scatola, non è forse vero che tutte le altre sembrano vecchie e insignificanti?
In un primo momento, chiunque risponderebbe che questa è una verità inconfutabile, ma riflettendoci bene..ognuno di noi ha qualche mostro sacro al quale torna sempre, qualcosa al quale non si può aggiungere né togliere nulla, qualcosa che non diventa mai vecchio o poco attuale, qualcosa che è sempre perfetto, quasi fosse un idea iperuranica, che è "quello lì".
Bene, in genere ciò che rende qualcosa immortale è la bellezza, la qualità.
Un tempo la moda aveva ritmi lentissimi, Gabrielle Bonheur Chanel impiegava giorni a cucire una giacca, impeccabilmente vestita, con la sigaretta fumante a penzoloni fra le labbra. E nulla poteva distoglierla, perché il fulcro del suo interesse non era la next issue, bensì come la giacca cadesse addosso alla mannequin, ovvero la qualità.
Cocò regalò, fra molte altre cose, i pantaloni alle donne, i tailleurs e l'abitino nero alle signore dell'epoca. Oggi percepiamo questi elementi come se fossero sempre esistiti, come se fosse impossibile vivere senza.

The Little Black Jacket nel frattempo diventa una dell next issues di Chanel par Karl Lagerfeld.
Non è assolutamente una novità tornare indietro nel tempo per celebrare ciò che è stato nella moda: è un continuo riprendere, riaggiornare, riadattare.
http://thelittleblackjacket.chanel.com/
Quindi cosa ne è della next issue, del progresso, del nuovo?
Forse semplicemente il progresso non sta in ciò che viene dopo, nel nuovo, ma nel realizzare pienamente ciò che è in potenza.
Spesso, come in qualsiasi altro campo, qualcuno ha una brillante intuizione e crea qualcosa di interessante che potrebbe essere ripreso, sviluppato.
Raramente possiamo godere di geni come Coco Chanel, che in un secondo scrivono 50 e più anni di storia, ma ogni tanto qualcuno ci fa un regalo, ad esempio le donne delicate, tuttavia sempre protette dalle loro armature di Alexander McQueen, ottima metafora di stoffa per la condizione della donna ai giorni nostri.
Il mio consiglio sarebbe concentrarsi su quel che già c'è, spesso le cose fondamentali sono proprio sotto i nostri occhi.
Questo dimostrano d'averlo perfettamente capito Domenico Dolce e Stefano Gabbana che da anni non fanno che sorprenderci felicemente: abiti con locandine della Traviata al La Scala(2009), collezioni estive che traboccano di sicilianità(2012) e in ultimo forse la sfilata che ho più apprezzato, tenutasi durante la Fashion Week di Milano da poco conclusasi, nella quale hanno sfilato abiti decorati a mosaico che riportano le icone bizantine del Duomo di Monreale e di Firenze. La loro è una forte conferma che il materiale migliore, le più grandi ispirazioni sono sotto i nostri occhi, pronte a tornare alla luce dopo secoli di polvere ancora modernissime, immortali.
E credo che se fossimo disposti ad aprire un po' gli occhi scopriremmo che non c'è luogo più adatto dell'Italia per ciò che è bello e immortale.





















 (Dolce e Gabbana, F/W 2009)




(Dolce e Gabbana, S/S 2013)


(Dolce e Gabbana, F/W 2014)

Scritto da Laura per la sezione Moda e Costume

mercoledì 20 febbraio 2013

Appello alle coscienze


Ho amici, uomini e donne di splendida cultura, che non hanno alcuna intenzione di andare a votare. Per rabbia, frustrazione o semplicemente incapacità di riconoscersi in un movimento/leader. Comprensibile, mi son detta. Del resto non è semplice districarsi tra ex magistrati, avvincenti ritorni in campo, partiti granitici, sospetti capovolgimenti di fronte, titoli inesistenti, pesci piccoli che inseguono pesci grandi (e viceversa). 
Com’è che si dice? 
ANDARE A VOTARE E’ UN DIRITTO E UN DOVERE CIVICO. 
La prima parte è sicuramente vera, ma è sulla seconda che gradirei soffermarmi. Andare a votare è piuttosto un dovere verso noi stessi. Il 24 e il 25 febbraio andiamo a scegliere la politica, ma da martedì in poi sarà la politica a scegliere per noi. Non servono maggioranze assolute per vincere, e, anzi, più piccola sarà la fetta di popolazione votante e più distorto sarà il risultato. 
Perciò, se non possiamo scegliere il bene maggiore, andiamo almeno a scegliere il male minore. Guardiamo ai programmi, poichè il bipolarismo ha smesso di esistere nell’istante esatto in cui si sono frammentate le ideologie. Per aiutarci nella comprensione del cosiddetto Porcellum, la legge elettorale tuttora in vigore, cito un articolo schematico e molto ben fatto.
Consultatelo, se avete dei dubbi, anche per capire la definizione di “voto utile”: in questo senso conoscere le soglie di sbarramento per accedere alla Camera e al Senato è fondamentale. 
 E’ importante inoltre sapere se la lista singola/partito per cui intendete votare corre da sola o è inserita in una coalizione (le soglie di sbarramento cambiano a seconda del caso). Al sopracitato articolo mi permetto di aggiungere una sola informazione: in base alla Legge Calderoli, è possibile per i candidati (sempre decisi dai partiti, salvo in caso di “parlamentarie”) presentarsi in più circoscrizioni e, se eletti in più di una, scegliere liberamente quella che preferiscono. Il primo dei non eletti della lista prenderà il suo posto nella rispettiva circoscrizione “rifiutata”. 
Ci tengo a porre l’accento sul fatto che non scegliamo gli eletti, ma il partito. E che gli stessi nomi possono comparire in cima alla lista in diverse circoscrizioni, con il semplice scopo di attirare consensi o “consentire ai capo-partito l’elezione dei candidati a loro più fidati” (wikipedia). 
Per la Camera votiamo dai 18 anni in poi, per il Senato ne occorrono 25. Tessera elettorale e carta d’identità alla mano, io andrò a compiere il mio “dovere civico”.

E voi?


Scritto da Martina

giovedì 8 novembre 2012

Quando è meglio evitare i classici.


I libri importanti, i grandi libri: insomma, i classici della letteratura. 
Tutti, nel proprio percorso di lettori, si sono "scontrati" con un classico, con quel libro che deve essere letto: che sia la lettura scolastica della Divina Commedia, della Gerusalemme Liberata, dell'Orlando Furioso, o peggio, dei Promessi Sposi. 
Questi libri importanti, questi grandi libri sembrano essere totalmente separati dal resto della letteratura: sono dei privilegiati, dei vip, dei sacerdoti eterni della Dea Letteratura, le pietre miliari di ogni educazione.
Diciamocelo: questi sono libri che incutono terrore o provocano un fastidio nel lettore il quale, finita la scuola o superato l'esame universitario, nella maggior parte dei casi, non aprirà più quel volume.
Ma perché questo rapporti di odio e venerazione, di "odi et amo" per usare un verso di Catullo che è il più classico dei versi della letteratura latina?  
Una motivazione può risiedere nel fatto che queste opere ci vengono imposte: manca quindi la libera volontà, l'afflato spontaneo alla lettura.
Un'altra può ricercarsi ( ma ne dubito fortemente, anzi, voglio credere che non sia così) nel fatto che questi classici non parlano più al nostro cuore: forse non possono più instaurare un rapporto dialogico con noi; il nostro sistema di valori e di emozioni risulta troppo lontano o addirittura totalmente opposto a quello espresso da questi grandi classici.

(Eppure io mi emoziono da morire quando leggo: "Fatti non foste a viver come bruti ma per seguir virtute e canoscenza" -- Sì, le debolezze di uno studente di Lettere.)


I classici sono libri spaventosamente lunghi, complicati e sembrano irraggiungibili: sia da leggere, sia da capire a pieno, sia da eguagliare. 
I classici vengono ammirati, ma non amati.
I classici stanno bene nella libreria, con la polvere sopra: ci basta sapere che sono lì, che lì resteranno e che ne abbiamo avuto esperienza sufficiente a scuola. 
I classici sono come i totem, ma anche come tabù: restano icasticamente lontano da noi, sopra di noi, attorno a noi, ma non con noi.
Il libro-classico nuoce gravemente alla salute (psichica).

Lasciando i classici nella loro aurea sacrale e paradisiaca ci spostiamo ( non scendendo ad un livello inferiore) verso i libri non-classici: i comuni mortali della Letteratura.
Ci sono libri che non godono dello status di classico, ma che ricordiamo e amiamo con intensità: quel libro simpatico, quel libro triste, quel libro che ci ricorda il primo amore, quel libro che descrive la nostra vita, quel libro che "eccomi, questo sono io".
Questi libri sono quelli che, nella nostra libreria ( o quanto meno nella mia), non hanno posto: questi libri sono senza dimora poiché  si muovono non appena ci muoviamo noi. Io me li porto dietro, li sposto dal comodino di destra a quello di sinistra, li metto sulla scrivania, li lascio sul tavolo dove studio, li appoggio vicino al caminetto, me li metto sotto il cuscino ( e alcuni li ritrovo dentro l'armadio tra una maglietta e un golf e quando succede resto in piedi come un palo a leggere, dimentico di tutto il resto).
Questi piccoli grandi libri sono spesso i primissimi con i quali ci siamo confrontati da piccoli lettori in erba: sono i libri illustrati delle scuole elementari, i "libri graduati" per varie fasce d'età, i libri che abbiamo letto e riletto fino a consumarne le pagine.

Non saranno classici, non saranno pietre miliari della Letteratura, ma sono stati e continuano ad essere un punto fermo a cui rivolgersi, a cui tornare sempre, a cui porre domande e trovare risposte.
Questi libri siamo noi.


P.S.: Prima di lasciarvi definitivamente, vi dico due piccole cose: primo, i Promessi Sposi, in fin dei conti, sono pure simpatici: letti con un po' di pazienza e di ironia sono una bella storia! Provateci.
Secondo, vi faccio un piccolo elenco dei miei libri-non classici che ancora leggo, che ancora amo follemente  e che vi consiglio di leggere:

A. Libri non-classici definiti "per bambini", ma che dovrebbero essere letti regolarmente.

  1. "Le più belle favole al telefono" di Gianni Rodari: se avete voglia di scoprire la strada che nin va in nessun posto, il paese senza punta, la caramella istruttiva e il marciapiede mobile;
  2. "Guerra alla Grande Melanzana" di Stefano Bordiglioni, perché solo il titolo dovrebbe farvi venire voglia di leggerlo
  3. "Cappuccetto Rosso, Verde, Giallo e Bianco" di Bruno Munari, perché forse il lupo non era cattivo e la nonna era partita per l'Africa.
  4. "Margherita, Matilde e il Sole" di Nicoletta Costa, perché ho amato le illustrazioni dell'autrice, perché la protagonista si guarda allo specchio e non si riconosce con tutti quei capelli impazziti e disordinati, perché le guarnizioni della torta del re sono fatte col dentifricio o forse perché c'è un girasole che vuole vivere da solo.
  5. "La casa Asac" di Ambrogio Borsani, perché anche io vorrei avere il telefono annoiato che mi chiama, l'aspirapolvere pepato che starnutisce, un tavolo passeggiatore e il quadro mitragliatore.
  6. "Il piccolo principe" di Antoine de Saint- Exupéry, perché dopo averlo letto da piccoli, deve essere letto da adulti e poi da anziani

B. Libri non-classici "per i grandi"

  1. "Che tu sia per me il coltello" di D. Grossman, se avete bisogno di uno scossone emotivo. (Attenzione ai libro-dipendenti: crea fortissima dipendenza)
  2. "L'Anticristo" di F. Nietzsche, perché non servono perché.
  3. "Amori ridicoli" e "L'insostenibile leggerezza dell'essere" di M. Kundera, perché Kundera rende drammaticamente appassionante anche un elenco telefonico.
  4. "Le Braci" di S. Marai, perché è l'essere possiede una leggerezza insostenibile.
  5. "L'innocente" di G. D'Annunzio, perché leggere D'Annunzio rende mentalmente più eleganti.
  6. "Poesie" di C. Michelstaedter, perché è un peccato che quest'anima bellissima non sia letta con maggiore frequenza.
  7. "Cinque storie ferraresi" di G. Bassani, se avete tempo, voglia e sentimento.
  8. "Mademoiselle de Maupin" di T. Gautier, per la musicalità e il gusto ottocentesco.


Non abbiate paura di leggere i non-classici: fanno benissimo alla salute! 



Scritto da Riccardo.

sabato 27 ottobre 2012

Galliano e Klimt: i Re dell'oro insieme sulla passerella.


Al di là degli avvenimenti che, nel febbraio dell’anno scorso, hanno portato John Galliano ad essere estromesso dal ruolo di direttore creativo che ricopriva fin dal 1996 presso Dior, è innegabile che alcune delle collezioni da lui disegnate per la Maison francese siano rimaste ben impresse nell’immaginario collettivo di addetti ai lavori, fashion lovers e persino dei “profani” sia per l’originalità dei modelli e l’impeccabile fattura, sia per la suggestività dei motivi decorativi e la straordinaria commistione di arte e moda.

Ed è alla collezione Haute Couture Spring 2008 che si deve fare un salto indietro per trovare uno degli esempi più significativi di questa commistione: prendendo le mosse dalla figura di Virginie Amélie Avegno Gautreau (meglio nota come Madame X, la giovane socialite che, divenuta famosa nell’alta società parigina per la sua avvenenza e per gli scandali amorosi che la riguardarono, fu ritratta da John Singer Sargent nel 1884) e aggiungendo pettinature eccessive, decorazioni opulente e ricercate, gioielli ispirati alla tradizione orafa e abiti voluminosi mutuati dai capolavori pittorici di Gustav Klimt, Galliano ha realizzato uno show e una collezione decisamente sopra le righe.
In essi, la musa ispiratrice (personificata da modelle ancheggianti sopra tacchi vertiginosi, ammantate in tessuti sgargianti e ) si è spogliata degli elementi che l’avrebbero confinata nel solo Ottocento per abbracciare un’allure dal sapore Sixties eppure senza tempo, rispecchiando perfettamente la sua natura di donna libera, audace, capace di vedere oltre la sua epoca.


Gustav Klimt (1862 – 1918) fu uno degli artisti di punta della Secessione Viennese e colui il quale fuse insieme, portandoli alle loro più estreme conseguenze, due fenomeni dell’arte del tempo: il Simbolismo e l’Art Nouveau. All’inizio della sua carriera, il tratto distintivo del suo disegno era la sovrabbondanza di ogni elemento, in un certo senso quasi barocca. Con il tempo, però, il suo stile mutò radicalmente, portando Klimt a prediligere un linearismo essenziale, benché sempre accompagnato da uno spiccato gusto decorativo, derivatogli anche dal lavoro del padre orafo.
Le opere di Klimt, a partire dalla Giuditta I del 1901, si caratterizzano tutte per una nota di erotismo (latente o palese che sia), la quale tuttavia non risulta mai fuori luogo, e per la tendenza a creare una cosiddetta “opera d’arte totale” (infatti la stessa cornice entra a far parte del dipinto).

Le due opere klimtiane (l’una risalente alla prima svolta stilistica della sua carriera, l’altra alla seconda che certamente fu influenzata dalla presenza di artisti come Schiele e Kokoschka alla Kunstchau) raffigurano Giuditta, l’eroina che, per liberare la sua città dall’assedio di Oloferne, sedusse quest’ultimo e lo uccise decapitandolo. Molte sono le opere che questi due dipinti hanno come precedenti (tra le altre, quelle di Donatello, Botticelli e Caravaggio), eppure in essi si colgono dettagli innovativi, quali l’abbigliamento dell’eroina (Felix Salten scrisse riguardo la Giuditta I: “Ci si immagina questa Giuditta vestita con un abito di paillettes”) e l’andamento curvilineo del corpo della II che sembra richiamare quello di un serpente infido. Dettagli che Galliano non poteva lasciarsi sfuggire e che, anzi, ha rielaborato magistralmente creando abiti dal taglio innovativo. I suo modelli, inoltre, si caricano di gioielli stilizzati (ma sempre preziosi e ricercati) come il collarino di Giuditta I) e vengono completati da pettinature ai limiti della fisica (chiaro omaggio ai capelli della II).

Il Ritratto di Adele Bloch-Bauer I è uno dei più esuberanti che Klimt abbia mai realizzato, in esso l’oro assume, da un lato, le caratteristiche del mosaico (lo sfondo infatti non è più unitario, ma sembra quasi un pulviscolo d’oro), dall’altro, la ricchezza e la definizione dei più preziosi gioielli bizantini (come si nota dalle decorazioni geometriche dell’abito e della tappezzeria, dal collarino finemente sbalzato e dai cuscini che sembrano incorniciare il volto di Adele come fossero un’aureola profana). Il Ritratto di Adele Bloch-Bauer II si colloca invece, come la già vista Giuditta II, in una fase successiva della produzione klimtiana in cui l’onnipresenza dell’oro sembra lasciare il posto alla restituzione dei caratteri di eleganza e femminilità di una donna dei suoi tempi, abbigliata alla moda. Donna che, tuttavia, richiama la componente ornamentale tanto cara a Klimt perché essa, raffigurata in una posa statica, sembra quasi essere una colonna classica sormontata da un enorme capitello, qui rappresentato dal cappello a tesa larga, il quale permette un ritorno, seppur molto limitato, alla prospettiva e alla tridimensionalità.
Proprio questo cappello dall’aria ingombrante (quasi un paralume o un piatto rovesciato) e quelle decorazioni (a forma di triangoli, rettangoli ed esedre), coniugati a volumi mastodontici e linee morbide, sono stati ripresi da Galliano per la sua collezione d’Alta Moda.

Il bacio rappresenta, probabilmente, l’opera più nota e apprezzata di Klimt. Frequenti erano all’epoca le rappresentazioni di baci o abbracci, tuttavia le figure coinvolte in questi gesti d’affetto avevano atteggiamenti più vampireschi (come se l’uno si avventasse sull’altra o viceversa) che romantici. L’attesa invece è un particolare tratto dal fregio per la sala da pranzo del Palazzo Stoclet a Bruxelles e raffigura appunto l’attesa che si incarna nella figura di una danzatrice egiziana, con il volto posto di profilo e gli occhi, dal taglio allungata, rivolti in lontananza. Tutto in questa donna diventa decorazione e le decorazioni geometriche stesse si presentano istoriate, quasi addolcite dai riccioli dell’albero della vita o da occhi stilizzati.
In entrambe le opere è notevole l’accostamento di motivi ornamentali prettamente geometrici (come la veste a rettangoli dell’uomo nel Bacio o i triangoli della danzatrice dell’Attesa) a quelli più morbidi (come i rami a spirale che intervallano la stampa dell’abito dell’uomo o dell’Attesa) e arrotondati (che sembrano richiamare bouquet di fiori stilizzati (come nell’abito indossato dalla donna de Il bacio). Tale accostamento non è di certo sfuggito all’occhio attento di Galliano. Si noti infatti l’uso che il talentuoso stilista ne ha fatto nei quattro modelli sopra riportati, in particolare in quello viola in alto a destra.


Scritto da Virna per Moda e Costume.








venerdì 19 ottobre 2012

“Ig Nobel: Scienziati pazzi sotto giudizio”. L’autunno porta il sorriso ad Harvard.


Il premio Ig Nobel fu fondato dallo scienziato dell’università di Harvard March Abrahams, nel 1991, come parodia del più prestigioso premio Nobel. La giuria dell'Ig Nobel (che letto tutto attaccato suona proprio come "ignobile"), composta di un gruppo di vincitori del premio Nobel, seleziona ogni anno i vincitori tra miriadi di candidature. “Scegliere è un inferno, riceviamo decine e decine di segnalazioni e spulciamo centinaia di riviste scientifiche”, spiega lo stesso Abrahams.
Alla fine del mese scorso sono stati assegnati i premi di questa ventiduesima edizione.
Il premio per la pace viene conferito alla
società russa SKN Company, ideatrice di una tecnologia che sarebbe in grado di convertire in diamanti le munizioni in disuso. Vince il premio per la psicologia un’equipe di studiosi, due olandesi e un peruviano, che hanno dimostrato come piegando ripetutamente la testa verso destra e verso sinistra mentre si guarda la Torre Eiffel, questa sembri più piccola. Il premio per l'anatomia è andato a Frans de Waal e Jennifer Pokorny per aver scoperto che gli scimpanzé possono riconoscere i loro simili dalla fotografia del loro posteriore, mentre il premio per la medicina è stato assegnato ai francesi Emmanuel Ben-Soussan e Michel Antonietti, per la scoperta di metodi che riducono, durante le colonscopie, il rischio di ‘esplosione’ del paziente.
Altri riconoscimenti sono andati a quattro statunitensi che hanno studiato l’attività cerebrale nei salmoni morti, e a uno svedese,
Johan Pettersson, che ha indagato sul perché agli abitanti di un paese svedese, Anderslov, i capelli diventino verdi, una volta entrati nelle proprie abitazioni.
Nonostante tutti i premi suscitino grande curiosità, il più atteso è senza dubbio quello per la fisica. Il riconoscimento per questa disciplina è andato a quattro studiosi, due inglesi e due americani, che hanno studiato l’equilibrio delle forze agenti sui capelli pettinati a coda di cavallo. Sempre nel campo della fisica, più specificatamente nell’ambito della fluidodinamica, altra scoperta meritatamente premiata è stata quella di
Krechetnikov e Mayer, che hanno cercato di dare una risposta al perché il caffè dentro una tazza rischia di fuoriuscirne se la teniamo in mano mentre camminiamo. L’analisi delle oscillazioni del liquido, comparata all’andatura della camminata della persona, hanno constatato che questo fenomeno avviene solamente se il nostro passo non è regolare.
Per finire, bisognerebbe stare attenti a sottovalutare del tutto queste scoperte ’ ignobili’, ma sarebbe opportuno rifletterci adeguatamente: molto più spesso di quanto si pensi scoperte fondamentali per il progresso dell’uomo sono state compiute mentre si cercava di andare in un’altra direzione, quasi per caso; è vero, le scoperte sopra citate fanno sorridere, ma in campo scientifico, Popper ce lo insegna, non è detta mai l’ultima parola.


Scritto da Lorenzo per la sezione Scienza e Tecnologia.

venerdì 5 ottobre 2012

I SEE LONDON, I SEE SAM’S TOWN.


Una giornata soleggiata come molte, con poche nuvole, una temperatura favorevole, aria fresca  non sempre porta alla pace dei sensi. Succede spesso invece che è proprio il clima non favorevole, quello fastidioso, diremmo, che provoca all’uomo uno sconvolgimento, un  cambiamento interiore che lo obbliga a riscoprire se stesso, a doversi adattare alla nuova condizione . Viaggiare in fin dei conti è proprio questo, vivere “alla buona”, adeguarsi all’inconsueto,  perdersi. Non so se è capitato mai a qualcuno di avere a cuore un luogo, una “casa spirituale” che non necessariamente deve essere fisica, ma un posto in cui le cose vadano semplicemente meglio, in cui si stacchi da tutto per raggiungere un po’ di serenità. Questo è ciò che in parte mi succede quando scendo dall’aereo e atterro a Londra. L’aria rigida, l’odore di umido, la pioggia, il grigiastro entrano nella mia quotidianità come se fossero stati sempre là e mi rassicuro perché capisco di essere ritornata nella mia “Sam’s Town”. Immaginiamo di prendere  l’autobus, il classico Terravision pieno di italiani, dall’aeroporto fino a Liverpool Street, e iniziamo a guardarci intorno: le strade, immense, descrivono linee continue che tagliano un territorio libero, quasi incontaminato. Da lì a poco sono visibili i primi edifici, le sensazioni sono diverse: le strade ultra moderne ci accompagnano alla periferia, non uno dei  grandi pregi di Londra ovviamente, e tuttavia estremamente caratteristica. In effetti, è quel senso di perdizione, di angoscia mista a curiosità che fa dei quartieri come East End, ben noto come il quartiere di Jack lo Squartatore, Camden,  Ealing mete incredibilmente affascinanti. Ci addentriamo, le architetture passano dalla precarietà alla stabilità nel giro di pochi metri, sono maestose, quasi ci deridono per la loro linearità e purezza. Intorno a noi centinaia di persone camminano velocemente come alla ricerca di qualcosa. Londra è viva e in continuo cambiamento.
La capitale britannica  rappresenta ad oggi una delle metropoli più innovatrici dal punto di vista artistico e tecnologico, nonché la prima piazza borsistica del mondo e la città più visitata dal turismo internazionale. L’alloggio a Londra dipende un po’ dalle finanze che si hanno a disposizione, ma sicuramente centrali sono i quartieri  di  Hide Park/Nottingh Hill e King Cross, che hanno un altissimo rapporto qualità-prezzo, e sono nondimeno collocazioni privilegiate per raggiungere il centro cittadino.
Le zone da visitare sono tantissime.  Sinceramente credo che la scelta di recarsi in un luogo piuttosto che in un altro dipenda da noi stessi e dai nostri interessi. Ma chi ama l’arte non può non andare a visitare la National Gallery a Trafalgar Square, contenente  una ricca collezione composta da più di 2.300 dipinti di varie epoche, dalla metà del XII sec al secolo scorso, il British Museum,  di carattere universalistico grazie alla collezione di artefatti rappresentanti le culture del mondo antiche e moderne, il Victoria and Albert Museum (veramente immenso), il museo di arti decorative più grande del mondo ospitante opere provenienti da tutti i campi artistici tra cui scultura, mobilia, metallurgia, fotografia. E la Tate Modern, per me, per chi ama l’arte moderna, un rifugio spirituale. Londra come ho già detto è un’ antitesi, un dualismo tra il vecchio e il nuovo, tuttora ancorata alla tradizione ma speranzosa di staccarsene. Questo aspetto credo sia visibile in particolare nella sua architettura: tenendo conto che dopo l’incendio del 1666 della vecchia città è rimasto ben poco, girando è possibile ammirare un  mix di edifici in stile georgiano, di cui l’architetto cardine è sicuramente John Nash, vittoriano, con A. W. Pugin, eduardiano e di età contemporanea . Ma è proprio tra gli storici palazzi londinesi, a mattoni rossi e tetti scuri, che si intravedono le nuove opere di architettura moderna: il Gherkin  (“il cetriolone”), situato all’interno del quartiere Barbican, diventato parte dello skyline della città ormai da tempo, il Lloyd's building di Rogers, la zona delle Docklands, ex centro portuale ora cuore economico della città.
Non posso parlare di Londra senza fare un piccolo accenno alla musica inglese. Il Brit-pop, l’Indie rock, la Dubstep e  il Trip Hop sono solo alcuni dei generi musicali sviluppatisi in Inghilterra, che con il suo mix culturale  è un'inesauribile fonte di ispirazione per la creazione di nuove tendenze: le generazioni di oggi si riconoscono nelle canzoni dei propri artisti  preferiti, che spesso descrivono la società contemporanea e i suoi difetti.
Quando penso a Londra però, togliendo l’eleganza, lo stile, la tradizione, il rigore formale come se di un quadro andassi ad asportare la tempera, i colori, le sfumature  e ne sopravvivesse solo lo schizzo a matita, cos’è che rimarrebbe? La mia Sam’s town probabilmente.

“You know
I see London, I see Sam's Town
Holds my hand and lets my hair down
Rolls that world right off my shoulder
I see London, I see Sam's Town.”
                                                                 

  (“Sam’s Town” The Killers, 2006)


Scritto da Maddalena.

A YEAR HAS PASSED


A YEAR HAS PASSED
 //a un anno dalla scomparsa//
Siate coraggiosi, canticchia in giro Steve Jobs. Canta, in verità, con voce da tenore. Ai cuori delle persone. Lo scandisce forte in pubblico (famoso, e romantico, resta il suo discorso a Stanford, 2005). Facile, tutto sommato, far la morale ai laureandi di una prestigiosa università, per chi a cinquantanni ha sconfitto la prima manifesazione di un tumore raro (e curabile) al pancreas, fondato due società, Apple e NeXT, rilevato Pixar, reso Pixar il colosso che conosciamo. Amato una moglie soltanto. Avuto dei figli. Rimane “facile” lo stesso monito in bocca a un ragazzo di diciottanni che lascia il Reed College dopo un semestre di corsi perchè non sa che fare di sè? O a un imprenditore di trenta, cacciato, come una meteora impazzita, dalla propria società? E ancora, a un uomo spaventato a morte davanti alla certezza di...morire? Allora mi riprometto di non demonizzare, di non mitizzare. Del resto Jobs è stato sì un impresario. Ma, pure, un inventore. Un giocatore. D’azzardo. É giusto appiattire una figura complessa solo perchè diventi consumabile? O ingigantirla, per farla bellissima e irraggiungibile? Così son nati gli dei, a mio parere: dalla Dea Immaginazione. 
Siate coraggiosi. Trovate il coraggio di ascoltare la vostra vocazione. Prima ancora, trovate il coraggio di cercarla. Dopo ancora, trovate il coraggio di perseguirla. Di questo parla il visionario, e ne parla per esperienza personale. Leggendo e vedendo di un uomo di cinquantasei anni accecato dalla passione, al capolinea di un’esistenza fervida , ho capito che la mezza età esiste solo per chi vive a metà tutta la vita. La neoplasia al pancreas si riformò nel 2009, e la morte bussò di nuovo, questa volta nel 2011, alla porta di un tizio con le scarpe da ginnastica e gli occhiali rotondi. Poco importava che nell’ ’84 si fosse inventato il primo computer ad interfaccia grafica con icone e mouse.  E che un lustro più tardi avesse partorito un modo inconcepito di fare cartoni (Toy Story 3D, 1991). La morte lo chiamò a sè come un qualunque altro uomo, e Jobs, molto poco umanamente, disse che capiva. Di più, che questa volta la stava aspettando. Era tornato nel ’96 alla sua Apple, con il ruolo di CEO (portandosi dietro i software di NeXT). Da allora ad oggi il fatturato è banalmente schizzato alle stelle, attraverso la Via Lattea di iMac iPod MacBook iPhone iPad. Passando per le rivoluzioni iTunes e iCloud.  Del resto Steve, più di ogni altra cosa, fu un pensatore. Un sognatore. Un costruttore dei sogni che pensava. Leggevo sul Sole di qualche mattina fa che ogni azione Apple vale circa 800 dollari. Un imprenditore dei sogni che ha costruito dopo averli pensati. 
Senta, me lo dice un aggettivo che le fa venire in mente Steve Jobs? La gente, a questa domanda, per la maggior parte risponde “creativo”, “incosciente”, “ingegnoso”, “ricco”, “geniale”, “ma chi? Quello di Apple?”, “fortunato”...”sfortunato”. Io rispondo INDIPENDENTE, e rispondo con stralci a me cari, particolarmente cari. Perchè il discorso a Stanford, da buona ventenne piena di incanti ambizioni e, insieme, immensa paura di relizzarli, ha stregato anche me.

"...Non era tutto così romantico al tempo (subito dopo aver lasciato l’università, si capisce). Non avevo una stanza nel dormitorio, perciò dormivo sul pavimento delle camere dei miei amici; portavo indietro i vuoti delle bottiglie di coca-cola per raccogliere quei cinque cent di deposito che mi avrebbero permesso di comprarmi da mangiare; ogni domenica camminavo per sette miglia attraverso la città per avere l’unico pasto decente nella settimana presso il tempio Hare Krishna. Ma mi piaceva. Gran parte delle cose che trovai sulla mia strada per caso o grazie all’intuizione in quel periodo si sono rivelate inestimabili più avanti. Lasciate che vi faccia un esempio: il Reed College a quel tempo offriva probabilmente i migliori corsi di calligrafia del paese. Nel campus ogni poster, ogni etichetta su ogni cassetto erano scritti in splendida calligrafia. Siccome avevo abbandonato i miei studi ‘ufficiali’e pertanto non dovevo seguire le classi da piano studi, decisi di seguire un corso di calligrafia per imparare come riprodurre quanto di bello visto là attorno. Ho imparato dei caratteri serif e sans serif, a come variare la spaziatura tra differenti combinazioni di lettere, e che cosa rende la migliore tipografia così grande. Era bellissimo, antico e così artisticamente delicato che la scienza non avrebbe potuto ‘catturarlo’, e trovavo ciò affascinante.Nulla di tutto questo sembrava avere speranza di applicazione pratica nella mia vita, ma dieci anni dopo, quando stavamo progettando il primo computer Machintosh, mi tornò utile. Progettammo così il Mac: era il primo computer dalla bella tipografia. Se non avessi abbandonato gli studi, il Mac non avrebbe avuto multipli caratteri e font spazialmente proporzionati. E se Windows non avesse copiato il Mac, nessun personal computer ora li avrebbe...Certamente non era possibile all’epoca ‘unire i puntini’e avere un quadro di cosa sarebbe successo, ma tutto diventò molto chiaro guardandosi alle spalle dieci anni dopo. Vi ripeto, non potete sperare di unire i puntini guardando avanti, potete farlo solo guardandovi alle spalle: dovete quindi avere fiducia che, nel futuro, i puntini che ora vi paiono senza senso possano in qualche modo unirsi nel futuro. Dovete credere in qualcosa: il vostro ombelico, il vostro karma, la vostra vita, il vostro destino, chiamatelo come volete… questo approccio non mi ha mai lasciato a terra, e ha fatto la differenza nella mia vita... Ogni tanto la vita vi colpisce sulla testa con un mattone. Non perdete la fiducia, però. Sono convinto che l’unica cosa che mi ha aiutato ad andare avanti (dopo la cacciata da Apple nell’ ’85) sia stato l’amore per ciò che facevo. Dovete trovare le vostre passioni, e questo è vero tanto per il/la vostro/a findanzato/a che per il vostro lavoro. Il vostro lavoro occuperà una parte rilevante delle vostre vite, e l’unico modo per esserne davvero soddisfatti sarà fare un gran bel lavoro. E l’unico modo di fare un gran bel lavoro è amare quello che fate. Se non avete ancora trovato ciò che fa per voi, continuate a cercare, non fermatevi, come capita per le faccende di cuore, saprete di averlo trovato non appena ce l’avrete davanti. E, come le grandi storie d’amore, diventerà sempre meglio col passare degli anni. Quindi continuate a cercare finché non lo trovate. Non accontentatevi... Quando ero giovane, c’era una pubblicazione splendida che si chiamava The whole Earth catalog, che è stata una delle bibbie della mia generazione. Fu creata da Steward Brand, non molto distante da qui, a Menlo Park, e costui apportò ad essa il suo senso poetico della vita. Era la fine degli anni Sessanta, prima dei personal computer, ed era fatto tutto con le macchine da scrivere, le forbici e le fotocamere polaroid: era una specie di Google formato volume, trentacinque anni prima che Google venisse fuori. Era idealista, e pieno di concetti chiari e nozioni speciali...Steward e il suo team pubblicarono diversi numeri di The whole Earth catalog, e quando concluse il suo tempo, fecero uscire il numero finale. Era la metà degli anni Settanta e io avevo pressappoco la vostra età. Nella quarta di copertina del numero finale c’era una fotografia di una strada di campagna nel primo mattino, del tipo che potete trovare facendo autostop se siete dei tipi così avventurosi. Sotto, le seguenti parole: “Siate affamati. Siate folli”. Era il loro addio, e ho sperato sempre questo per me. Ora, nel giorno della vostra laurea, pronti nel cominciare una nuova avventura, auguro questo a voi."

In questi immensi tempi di crisi, con la disoccupazione in Italia al 10,7% e quella giovanile quasi al 35, credo  valga ancora la pena dar retta a chi, in circostanze floride e di speranza, smise di pensare all’università come a un bene insostituibile (atto di pensiero che tuttora noi ragazzi siamo incapaci di produrre). Ebbe fede nel destino. Ebbe fede in sè.  Queste tre circostanze fecero tutta la differenza.  Nel magma della società che prova a inghiottirci, meritiamo più che mai di seguire noi stessi: è la sola azione, se compiuta da tutti, destinata a cambiare il mondo. Camminando sul filo dello Sbaglio.  In una vita che è un circo senza reti. D’altra parte rischiare gli errori, e pagare per essi, è, più di tutto, indipendenza.                                                              
 E in ogni caso ringrazio, a me questi font piacciono parecchio.

Quando avevo diciassette anni, ho letto una citazione che recitava: “Se vivi ogni giorno come se fosse l’ultimo, uno di questi c’avrai azzeccato”. Mi fece una gran impressione, e da quel momento, per i successivi trentatrè anni, mi sono guardato allo specchio ogni giorno e mi sono chiesto: “Se oggi fosse l’ultimo giorno della mia vita, vorrei fare quello che sto per fare oggi?”. E ogni volta che la risposta era “No” per troppi giorni consecutivi, sapevo di dover cambiare qualcosa.Ricordare che sarei morto presto è stato lo strumento più utile che abbia mai trovato per aiutarmi nel fare le scelte importanti nella vita. Perché quasi tutto – tutte le aspettative esteriori, l’orgoglio, la paura e l’imbarazzo per il fallimento – sono cose che scivolano via di fronte alla morte, lasciando solamente ciò che è davvero importante. Ricordarvi che state per morire è il miglior modo per evitare la trappola rappresentata dalla convinzione che abbiate qualcosa da perdere. Siete già nudi. Non c’è ragione perché non seguiate il vostro cuore.


Scritto da Martina 

venerdì 17 agosto 2012

Il confort design



«La gente che vuol cambiare non è mai felice.» 


Cosi Leslie Poles Hartley si pronuncia sul tema del cambiamento, io però non sono d'accordo almeno per un certo punto di vista. Tralasciando cause ed effetti legati alla psicosi, all'analisi, alle domande e alle teorie, cambiare alle volte è la ricetta giusta. Se cambiare se stessi non è poi così facile, per intraprendere questo percorso di metamorfosi, si può cominciare modificando e rinnovando quello che ci circonda e di più familiare abbiamo: la casa.
Un tocco di colore, un pizzico di snob, un maquillage studiato, bastano per cambiare volto alla propria vita. Un tessuto, un riposizionamento e magari qualche acquisto sono un vero toccasana per un rinnovamento, almeno per gli occhi. Tanti sono i siti specializzati, tante le occasioni che ormai ti si gettano tra le braccia e innumerevoli anche i flop. Dogmi proibitivi non esistono, basta solo (un parolone) dosare il tutto ed avere pazienza se l'intervento di un vero esperto pare superfluo. Ricercare i pezzi giusti è una vera impresa stuzzicante e mano al portafogli è anche complicata, ma di design o pseudo tale molteplici e variopinti sono gli esemplari: dai grandi magazzini, alle catene internazionali, dai negozietti del centro storico ai bazar etnici nessuno davvero rimane a bocca asciutta. 
Quello che posso dirvi, per mia modestissima esperienza nel campo dell'arredamento, è tener conto per prima cosa delle proprie esigenze, degli spazi e naturalmente del budget. Liberare tutto e partire da uno spazio vuoto aiuta a riorganizzare le idee e a capire come orientarsi nel nuovo ambiente. Partire col dare una rinfrescata alle pareti è in genere fondamentale e per una volta le mezze misure sono ottime: non un mix di colori improbabili e troppo accesi mixati tra loro come del resto colorini tristi, spenti e ospedalieri. Un buon compromesso è verniciare una sola parete, magari non quella con finestra o porta (poi lì dipende dalla morfologia della stanza) in modo da trovare la guida e la protagonista della stanza. Coordinare è un'ottima carta vincente e sicuramente non accavallare stili, pezzi e tendenze diverse anche se un sapiente mix conferisce al tutto un'aria più vivibile e meno strucchevole. Dopo le pareti il gioco vien da sè, non è tanto incastrare o spostare, quanto immaginare un nuovo spazio totalmente diverso e confortevole. Riviste e siti specializzati aiutano senza dubbio, però quello "zing", quel tocco personale evita sicuramente di ritrovarsi con risultati esterofili o troppo artefatti. Il design troppo... design mi sembra a volte troppo eccessivo e impossibile da vivere in una vita caotica e metropolitana, sempre se non si hanno servitù, o ci si dorme e basta, perchè mi fanno un po' ridere certe case con cucine immense iper-tecnologiche con banconi i doppi forni e led sparsi un po' a caso mai usati e lasciati così in esposizione.
 Abitare vuol dire vivere, sporcare, pulire e risporcare. Vuol dire anche modificare, e se rinnovare se stessi non basta, guardatevi intorno punti di partenza ce ne sono sempre, una bella mano di bianco, una spolverata e un sorriso e se esiste lo shopping terapeutico perchè non la design terapia!?

Scritto da Nicola

venerdì 27 luglio 2012

Le scelte siamo noi.


Nei momenti in cui il cuore mi duole più forte per la mancanza di condivisione, è sul termine rarità che mi fermo a riflettere.  Giuseppe Ayala, noto per esser stato il pm del “maxiprocesso” del 1987 alla mafia, ha scritto nel 2007 un libro: breve, intenso, rovinoso. “Chi ha paura muore ogni giorno”. Quindici anni dopo il 1992 ha raccolto la voglia di raccontare il suo Borsellino, e il suo Falcone. Quindici anni dopo s’è fatto perdonare la “colpa” d’esser rimasto vivo. Sulle sembianze della Morte che reclamò i due magistrati quasi non v’è accenno, ai molti perché, però, sì. Ma andiamo con ordine, poiché non mi sono avvalsa solo della sua straordinaria testimonianza per ricostruire l’identità dei professionisti, e degli uomini, che in quegli anni combatterono. E persero. E persero?
Chi si ricorda degli esordi di Falcone  lo descrive come un meticoloso giudice fallimentare, prima dell’ approdo all’ufficio istruzione.  E tuttavia anche lì la sua dimestichezza con l’immensa verità che “i soldi lasciano tracce” come fossero sporchi di sangue (e a volte lo erano letteralmente) si rilevò preziosa.
 Nell’ ’82, Ninni Cassarà, vicecapo della squadra mobile di Palermo, comincia a decifrare la lotta di potere all’ interno di Cosa Nostra (definizione che i “mafiosi” hanno sempre preferito a “mafia”). La guerra era sanguinosa, pretenziosa: palermitani e corleonesi s’ammazzavano nei vicoli del centro, seduti al caffè con i figli in braccio. Parecchi sparirono nel nulla (testimonianze di molti collaboratori di giustizia svelarono in seguito che i corpi si erano dissolti sul serio, una volta immersi nell’acido). Prima d’allora non c’erano state chiavi per capire la “guerra civile” in seno all’organizzazione mafiosa. Comparirono nomi nuovi. I “contadini” di Corleone prendevano il sopravvento. 
Falcone non perse tempo. Comprese a breve che i cugini Ignazio e Nino Salvo, uomini potentissimi a Palermo, rappresentavano il nesso (uno dei nessi) tra Stato e mafia, “la saldatura tra gli interessi bassi e quelli raffinati”.  Ancora non so a chi attribuire i primi, e a chi i secondi. 
Quando Rocco Chinnici, capo dell’ufficio istruzione e diretto superiore di Falcone, venne messo a tacere definitivamente con un’ autobomba, gli succedette Antonino Caponnetto. Molti, a prima impressione, lo definirono un uomo gracile, avanti con l’età. Un pesce fuor d’acqua. E invece egli prese in mano la matita e ultimò con coraggio il disegno che era esistito negli occhi di Chinnici. Perfezionandolo. Il pool antimafia aveva una forma definita: Paolo Borsellino, Giovanni Falcone, Giuseppe Di Lello e Leonardo Guarnotta ne erano la sostanza. Un’assai bella sostanza.  Ayala coadiuvava i lavori da pubblico ministero quale era, studiando le prove man mano che venivano raccolte.  Partì spesso con Falcone, e forse, a volte, fu più della bella voce che cantava la superba canzone scritta dall’amico. Si prendevano in giro così, i due, poiché il ruolo del pm era nei fatti quello di presentare in tribunale, nel miglior modo possibile, le prove raccolte dal giudice istruttore: Falcone era l’autore, Ayala l’interprete. C’era collaborazione. Lealtà. La consapevolezza di un obiettivo comune, l’abbattimento di un’organizzazione criminale, che richiedeva la specificità di ciascuno e l’adattamento di tutti. 
Quando nel 1983 Tommaso Buscetta, “uomo d’onore”,  fu arrestato in Brasile, chiese sorprendentemente di parlare con il giudice Falcone. Le informazioni che in quell’estate gli riversò addosso costituirono nel complesso un’autentica rivalsa sul sistema mafioso. Latitante, infatti, e considerato tra i perdenti di Cosa Nostra,  non gli fu concesso di tenere conti in sospeso: perse ammazzati due figli maschi, il marito della figlia, un cognato, un nipote. Sta di fatto che Buscetta aprì gli occhi di tutti: la mafia era sì un’organizzazione criminale, violenta, ma assetata di sangue solo in proporzione alle necessità del potere. Certo, il potere andava mantenuto. Le gerarchie esistevano, e decidevano. La “cupola” stava al vertice, l’unità della famiglia al centro. Alle trasgressioni seguivano le sanzioni, in un qualche senso, come in uno stato di diritto. Le sue dichiarazioni gettarono le basi per il maxiprocesso nella misura in cui confermarono intuizioni latenti e indizi già raccolti, aprendo tuttavia uno scenario ben più ampio. Fu come quando stai cucendo, e sei arrivato a un bel punto, senza sapere che era un maglione, quello che alla fine ne avresti cavato fuori.  Il giudice ottenne dal boss la quadratura.
Buscetta spiegò, oltre alla struttura di Cosa Nostra, i termini della guerra di mafia. Ma non s’intrattenne mai sui rapporti tra questa e lo Stato. I tempi, per lui, “non erano ancora maturi”. E da questo punto di vista non lo sarebbero mai stati. 
Nel 1985 muore crivellato con colpi di fucile, sotto casa, Ninni Cassarà. La stessa notte Falcone e Borsellino vengono prelevati e portati all’Asinara, per ultimare in sicurezza l’indicibile attività inerente al celebrando maxiprocesso. Il sipario s’aprì nel febbraio dell’ ’86. 366 imputati, molti dei quali arrestati. Il verdetto fu emesso il 16 dicembre dell’ ’87: colpevoli 344, di cui 19 condannati all’ergastolo. Grandi nomi come quello di Riina e Provenzano  furono processati in contumacia, ma questo, in confronto al risultato complessivo, contò poco. 
Ultimato il maxiprocesso con esito positivo, almeno in primo grado, tutti, cioè tutti gli uomini del pool, stavano sospesi nella certezza che i mafiosi avrebbero atteso il banco di prova della Cassazione. Prima di massacrare i responsabili di quella Waterloo, s’intende. L’on. Salvo Lima ebbe il compito di aggiustare gli esiti  della “guerra”, senza di fatto riuscirvi. Ne pagò il prezzo nel ’92, quando morì ammazzato a colpi di pistola. La mafia non fa sconti, neanche ai suoi emissari nei palazzi del potere.
Nel  frattempo Paolo Borsellino divenne Procuratore della Repubblica a Marsala. Quando anche Caponnetto lascia, desideroso di tornare a Firenze dopo una stagione impegnativa, non è Falcone, suo naturale erede, a succedergli. Il Csm opta per il criterio dell’ anzianità, e così la scelta ricade su Antonino Meli, giudice della Corte d’appello di Caltanissetta. Le polemiche furono molte: Falcone cominciò ad essere lasciato solo. Pubblicamente solo. A nulla erano valsi i suoi meriti nel rigido ingranaggio della magistratura. Il pool, presto, languì. Ma non sotto silenzio. Nell’ ’88 Borsellino denunciò con puntualità e coraggio quanto stava accadendo a Palermo. Ovviamente ne dovette rispondere, primo fra tutti al Csm. Alla mafia, poi. 
 A metà Giugno dell’ ’89 si verificò il primo serio tentativo di far fuori Falcone. In vacanza, sotto la villa in cui alloggiava fu trovata una bomba di 23 kg di gelatina. Pronta a esplodere. Il giudice fu preso e riportato a Palermo; quando si trovò solo con Ayala poterono in pace chiedersi “se quella mafia solo era”.
Andreotti, per la sesta volta a capo del governo, sceglie come ministro della giustizia Claudio Martelli, un giovane socialista. Quest’ultimo non esita a nominare Falcone Direttore Generale degli Affari Penali, il quale accettò. Perché “la lotta alla mafia si fa in Sicilia, ma si vince a Roma”. 
Recito testualmente dal libro di Ayala: “il 14 maggio (1992) cenammo assieme (con Falcone e sua moglie) alla Carbonara di Campo de’ Fiori. Una serata vivace. L’argomento principale fu Tangentopoli, da poco venuta alla ribalta … Lo rividi a Palermo nella tarda sera del 23 maggio in una “camera” fredda e molto spoglia. Eravamo soli, ma non parlammo. Lui dormiva. Un sonno senza risveglio. Ai primi di luglio mi telefonò da Firenze Nino Caponnetto, pregandomi di andare a trovare Borsellino, che aveva sentito e gli era sembrato molto giù di corda. Volai a Palermo il prima possibile e lo raggiunsi in ufficio. Parlammo a lungo. A un certo punto mi disse una frase che feci finta di non capire: “Giuseppe, non posso lavorare meno. Mi resta poco tempo”. Rividi anche lui, nel pomeriggio del 19 luglio davanti alla casa di sua madre. Ma non lo riconobbi. Ne era rimasto ben poco. Ha detto Agnese Borsellino: “Paolo cominciò a morire quando morì Giovanni, come due canarini che difficilmente sopravvivono a lungo l’uno alla morte dell’altro”. Pare che un giorno ci ritroveremo ancora. Senza fretta, però. Loro ne hanno avuta troppa. Senza volerlo. E così sia”.
Senza sentimentalismi, il giudice Borsellino rimase, nella certezza della morte. Gli amici avrebbero continuato a ricordarlo come un uomo compiuto, d’esempio. Come tutti gli eroi suscitava invidia nei deboli, desiderio d’emulazione negli “incompiuti”. 
Francesca Morvillo, moglie di Falcone, fu un magistrato di splendida cultura. Una donna bella e di particolare acume.
Le scorte, fatte di uomini in carne ed ossa, persero la vita con i loro magistrati. Tutti nel tentativo di fare soltanto il proprio lavoro.
Se posso, chiudo il cerchio aperto all’inizio sulla rarità. Due cose confortano della rarità: ne esiste per definizione poca, ma esiste. Così quando mi sento più sola, e imparo di questi uomini attraverso le ricostruzioni e le testimonianze, capisco chi voglio essere, e chi voglio accanto. Senza presunzione. Con aspirazione. Con ammirazione.
E persero? La vita sicuramente sì. Tuttavia la mafia ha smesso d’ammazzare i simboli dello Stato. Per paura dei sentimenti popolari di rivalsa o perché di simboli non ne esistono più? La domanda mi tormenta fino a un certo punto. Quanto dovevo imparare l’ho imparato. E mio figlio si chiamerà Gianpaolo. 

Scritto da Martina