venerdì 27 luglio 2012

Le scelte siamo noi.


Nei momenti in cui il cuore mi duole più forte per la mancanza di condivisione, è sul termine rarità che mi fermo a riflettere.  Giuseppe Ayala, noto per esser stato il pm del “maxiprocesso” del 1987 alla mafia, ha scritto nel 2007 un libro: breve, intenso, rovinoso. “Chi ha paura muore ogni giorno”. Quindici anni dopo il 1992 ha raccolto la voglia di raccontare il suo Borsellino, e il suo Falcone. Quindici anni dopo s’è fatto perdonare la “colpa” d’esser rimasto vivo. Sulle sembianze della Morte che reclamò i due magistrati quasi non v’è accenno, ai molti perché, però, sì. Ma andiamo con ordine, poiché non mi sono avvalsa solo della sua straordinaria testimonianza per ricostruire l’identità dei professionisti, e degli uomini, che in quegli anni combatterono. E persero. E persero?
Chi si ricorda degli esordi di Falcone  lo descrive come un meticoloso giudice fallimentare, prima dell’ approdo all’ufficio istruzione.  E tuttavia anche lì la sua dimestichezza con l’immensa verità che “i soldi lasciano tracce” come fossero sporchi di sangue (e a volte lo erano letteralmente) si rilevò preziosa.
 Nell’ ’82, Ninni Cassarà, vicecapo della squadra mobile di Palermo, comincia a decifrare la lotta di potere all’ interno di Cosa Nostra (definizione che i “mafiosi” hanno sempre preferito a “mafia”). La guerra era sanguinosa, pretenziosa: palermitani e corleonesi s’ammazzavano nei vicoli del centro, seduti al caffè con i figli in braccio. Parecchi sparirono nel nulla (testimonianze di molti collaboratori di giustizia svelarono in seguito che i corpi si erano dissolti sul serio, una volta immersi nell’acido). Prima d’allora non c’erano state chiavi per capire la “guerra civile” in seno all’organizzazione mafiosa. Comparirono nomi nuovi. I “contadini” di Corleone prendevano il sopravvento. 
Falcone non perse tempo. Comprese a breve che i cugini Ignazio e Nino Salvo, uomini potentissimi a Palermo, rappresentavano il nesso (uno dei nessi) tra Stato e mafia, “la saldatura tra gli interessi bassi e quelli raffinati”.  Ancora non so a chi attribuire i primi, e a chi i secondi. 
Quando Rocco Chinnici, capo dell’ufficio istruzione e diretto superiore di Falcone, venne messo a tacere definitivamente con un’ autobomba, gli succedette Antonino Caponnetto. Molti, a prima impressione, lo definirono un uomo gracile, avanti con l’età. Un pesce fuor d’acqua. E invece egli prese in mano la matita e ultimò con coraggio il disegno che era esistito negli occhi di Chinnici. Perfezionandolo. Il pool antimafia aveva una forma definita: Paolo Borsellino, Giovanni Falcone, Giuseppe Di Lello e Leonardo Guarnotta ne erano la sostanza. Un’assai bella sostanza.  Ayala coadiuvava i lavori da pubblico ministero quale era, studiando le prove man mano che venivano raccolte.  Partì spesso con Falcone, e forse, a volte, fu più della bella voce che cantava la superba canzone scritta dall’amico. Si prendevano in giro così, i due, poiché il ruolo del pm era nei fatti quello di presentare in tribunale, nel miglior modo possibile, le prove raccolte dal giudice istruttore: Falcone era l’autore, Ayala l’interprete. C’era collaborazione. Lealtà. La consapevolezza di un obiettivo comune, l’abbattimento di un’organizzazione criminale, che richiedeva la specificità di ciascuno e l’adattamento di tutti. 
Quando nel 1983 Tommaso Buscetta, “uomo d’onore”,  fu arrestato in Brasile, chiese sorprendentemente di parlare con il giudice Falcone. Le informazioni che in quell’estate gli riversò addosso costituirono nel complesso un’autentica rivalsa sul sistema mafioso. Latitante, infatti, e considerato tra i perdenti di Cosa Nostra,  non gli fu concesso di tenere conti in sospeso: perse ammazzati due figli maschi, il marito della figlia, un cognato, un nipote. Sta di fatto che Buscetta aprì gli occhi di tutti: la mafia era sì un’organizzazione criminale, violenta, ma assetata di sangue solo in proporzione alle necessità del potere. Certo, il potere andava mantenuto. Le gerarchie esistevano, e decidevano. La “cupola” stava al vertice, l’unità della famiglia al centro. Alle trasgressioni seguivano le sanzioni, in un qualche senso, come in uno stato di diritto. Le sue dichiarazioni gettarono le basi per il maxiprocesso nella misura in cui confermarono intuizioni latenti e indizi già raccolti, aprendo tuttavia uno scenario ben più ampio. Fu come quando stai cucendo, e sei arrivato a un bel punto, senza sapere che era un maglione, quello che alla fine ne avresti cavato fuori.  Il giudice ottenne dal boss la quadratura.
Buscetta spiegò, oltre alla struttura di Cosa Nostra, i termini della guerra di mafia. Ma non s’intrattenne mai sui rapporti tra questa e lo Stato. I tempi, per lui, “non erano ancora maturi”. E da questo punto di vista non lo sarebbero mai stati. 
Nel 1985 muore crivellato con colpi di fucile, sotto casa, Ninni Cassarà. La stessa notte Falcone e Borsellino vengono prelevati e portati all’Asinara, per ultimare in sicurezza l’indicibile attività inerente al celebrando maxiprocesso. Il sipario s’aprì nel febbraio dell’ ’86. 366 imputati, molti dei quali arrestati. Il verdetto fu emesso il 16 dicembre dell’ ’87: colpevoli 344, di cui 19 condannati all’ergastolo. Grandi nomi come quello di Riina e Provenzano  furono processati in contumacia, ma questo, in confronto al risultato complessivo, contò poco. 
Ultimato il maxiprocesso con esito positivo, almeno in primo grado, tutti, cioè tutti gli uomini del pool, stavano sospesi nella certezza che i mafiosi avrebbero atteso il banco di prova della Cassazione. Prima di massacrare i responsabili di quella Waterloo, s’intende. L’on. Salvo Lima ebbe il compito di aggiustare gli esiti  della “guerra”, senza di fatto riuscirvi. Ne pagò il prezzo nel ’92, quando morì ammazzato a colpi di pistola. La mafia non fa sconti, neanche ai suoi emissari nei palazzi del potere.
Nel  frattempo Paolo Borsellino divenne Procuratore della Repubblica a Marsala. Quando anche Caponnetto lascia, desideroso di tornare a Firenze dopo una stagione impegnativa, non è Falcone, suo naturale erede, a succedergli. Il Csm opta per il criterio dell’ anzianità, e così la scelta ricade su Antonino Meli, giudice della Corte d’appello di Caltanissetta. Le polemiche furono molte: Falcone cominciò ad essere lasciato solo. Pubblicamente solo. A nulla erano valsi i suoi meriti nel rigido ingranaggio della magistratura. Il pool, presto, languì. Ma non sotto silenzio. Nell’ ’88 Borsellino denunciò con puntualità e coraggio quanto stava accadendo a Palermo. Ovviamente ne dovette rispondere, primo fra tutti al Csm. Alla mafia, poi. 
 A metà Giugno dell’ ’89 si verificò il primo serio tentativo di far fuori Falcone. In vacanza, sotto la villa in cui alloggiava fu trovata una bomba di 23 kg di gelatina. Pronta a esplodere. Il giudice fu preso e riportato a Palermo; quando si trovò solo con Ayala poterono in pace chiedersi “se quella mafia solo era”.
Andreotti, per la sesta volta a capo del governo, sceglie come ministro della giustizia Claudio Martelli, un giovane socialista. Quest’ultimo non esita a nominare Falcone Direttore Generale degli Affari Penali, il quale accettò. Perché “la lotta alla mafia si fa in Sicilia, ma si vince a Roma”. 
Recito testualmente dal libro di Ayala: “il 14 maggio (1992) cenammo assieme (con Falcone e sua moglie) alla Carbonara di Campo de’ Fiori. Una serata vivace. L’argomento principale fu Tangentopoli, da poco venuta alla ribalta … Lo rividi a Palermo nella tarda sera del 23 maggio in una “camera” fredda e molto spoglia. Eravamo soli, ma non parlammo. Lui dormiva. Un sonno senza risveglio. Ai primi di luglio mi telefonò da Firenze Nino Caponnetto, pregandomi di andare a trovare Borsellino, che aveva sentito e gli era sembrato molto giù di corda. Volai a Palermo il prima possibile e lo raggiunsi in ufficio. Parlammo a lungo. A un certo punto mi disse una frase che feci finta di non capire: “Giuseppe, non posso lavorare meno. Mi resta poco tempo”. Rividi anche lui, nel pomeriggio del 19 luglio davanti alla casa di sua madre. Ma non lo riconobbi. Ne era rimasto ben poco. Ha detto Agnese Borsellino: “Paolo cominciò a morire quando morì Giovanni, come due canarini che difficilmente sopravvivono a lungo l’uno alla morte dell’altro”. Pare che un giorno ci ritroveremo ancora. Senza fretta, però. Loro ne hanno avuta troppa. Senza volerlo. E così sia”.
Senza sentimentalismi, il giudice Borsellino rimase, nella certezza della morte. Gli amici avrebbero continuato a ricordarlo come un uomo compiuto, d’esempio. Come tutti gli eroi suscitava invidia nei deboli, desiderio d’emulazione negli “incompiuti”. 
Francesca Morvillo, moglie di Falcone, fu un magistrato di splendida cultura. Una donna bella e di particolare acume.
Le scorte, fatte di uomini in carne ed ossa, persero la vita con i loro magistrati. Tutti nel tentativo di fare soltanto il proprio lavoro.
Se posso, chiudo il cerchio aperto all’inizio sulla rarità. Due cose confortano della rarità: ne esiste per definizione poca, ma esiste. Così quando mi sento più sola, e imparo di questi uomini attraverso le ricostruzioni e le testimonianze, capisco chi voglio essere, e chi voglio accanto. Senza presunzione. Con aspirazione. Con ammirazione.
E persero? La vita sicuramente sì. Tuttavia la mafia ha smesso d’ammazzare i simboli dello Stato. Per paura dei sentimenti popolari di rivalsa o perché di simboli non ne esistono più? La domanda mi tormenta fino a un certo punto. Quanto dovevo imparare l’ho imparato. E mio figlio si chiamerà Gianpaolo. 

Scritto da Martina 

Nessun commento:

Posta un commento